Allenare l’apnea per migliorare nel nuoto: la nuova sfida

Nuoto e apnea, perché?

Da qualche tempo oramai grandi campioni del nuoto come Milorad Cavic – nel passato – e Federica Pellegrini & Co. hanno inserito nelle loro routine di allenamento di nuoto delle sedute specifiche di allenamenti in apnea sia in acqua che a secco. Perché vi domanderete. Beh! La risposta è abbastanza immediata: per migliorarsi bisogna curare i particolari e per atleti di alto livello ogni dettaglio fa la differenza.

Ma anche per il nuotatore Master il dettaglio e la cura dei particolari sono elementi sicuramente sfidanti e motivanti. In uno sprint a farfalla o a stile libero un nuotatore di alto livello può arrivare a respirare 2 volte mentre sui 100 il numero di respirazioni può salire a 20, ovvero si prende aria ogni 6\8 bracciate.

Nella farfalla per respirare non basta girare il capo, già alzare la testa e tenerla in avanti cambia l’assetto del nuotatore e fa perdere decimi importanti. Eliminare o ridurre questa necessità di respirare significa poter risparmiare decimi fondamentali in una prestazione di alto livello. In un 200 stile libero o in un 400 stile libero è molto importante riuscire a gestire al meglio la respirazione e quindi l’ossigenazione muscolare soprattutto quando il livello di affaticamento inizia a diventare limitante sia dal punto di vista tecnico che prestazionale.

Siamo convinti che allenare l’apnea nel nuoto introducendo delle sedute di allenamento specifico sia a secco che in acqua permetterà al nuotatore di imparare a respirare meglio ed ottimizzare la capacità polmonare. Attraverso degli esercizi di respirazione specifici il nuotatore potrà imparare a utilizzare al meglio il diaframma e la respirazione diaframmatica sia durante la prestazione che nelle fasi di recupero: questo tipo di respirazione, che deriva direttamente dalle pratiche yoga Pranayama, è una respirazione tutt’altro che banale ma che può permettere all’atleta di aumentare anche del 30% i volumi aerei scambiati, con tutti i chiari vantaggi che ne possono conseguire in termini di ossigenazione.

Infatti avere un diaframma mobile, elastico e rilassato permette una ventilazione ottimale soprattutto nelle fasi del nuoto in cui il livello di fatica è molto elevato, ed essere consapevoli del tipo di respirazione che si sta facendo aiuta a gestire al meglio i momenti in cui l’ossigeno inizia a mancare e l’acido lattico si accumula nei nostri muscoli. In acqua sarà opportuno introdurre delle sessioni specifiche di nuoto in apnea e di apnea pura al fine di migliorare la tolleranza ipercapnica ed ipossica e quindi permettere all’atleta di riuscire a gestire al meglio momenti della prestazione in cui sono tre i fattori che possono iniziare a inficiare la prestazione e generare stress:

  1. l’accumulo di anidride carbonica,
  2. lo scarso apporto di ossigeno
  3. l’accumulo di lattato

Infatti un elemento molto importante da non sottovalutare è anche lo stress che deriva dalla scarsa abitudine a gestire momenti della gara in cui abbiamo poco ossigeno e dobbiamo stare sott’acqua: si pensi alle fasi subacquee in uscita dalle virate, momenti di una prestazione che possono fare la vera differenza (Phelps ce lo ha dimostrato!).

Swim-Apnea è una innovativa metodica di allenamento che non sostituisce e critica quella corrente ma che amplia lo spettro e la gamma motivazionale dei nuotatori che con piacere potranno migliorare notevolmente i risultati sportivi tramite il totale controllo della loro performance sportiva e rivolto a tutte le persone comuni che vogliono accrescere la propria autostima.

Per info su programmi di allenamento specifici Swim-Apnea contatta Marco Cosentino o Luciano Vietri

Respirazione ed Apnea

Respirazione ed Apnea

“Quale è la respirazione ottimale prima di una prestazione in apnea?”

È la domanda ricorrente che ogni neofita apneista pone al proprio istruttore per cercare di capire come prepararsi  alla prestazione nel modo migliore, come “riempire al meglio” i polmoni e come provare a prolungare la propria apnea mantenendo comunque un buon livello di rilassamento.

Ed è la domanda che molti apneisti  (più o meno esperti) e pescatori in apnea dovrebbero porsi per cercare di capire come affrontare al meglio un tuffo in profondità ed eventualmente migliorare e rendere più sicure le proprie prestazioni.

Attenzione: tutte le discipline subacquee  e\o apneistiche durante le quali è previsto l’atto di trattenere il respiro devono essere svolte in presenza di un istruttore e\o di un compagno qualificato. Questo post ha scopo puramente informativo. Mai in Mare da soli.

Sicuramente tutte le tecniche di respirazione che vengono proposte durante i corsi di Apnea sono molto importanti ed aiutano l’apneista nella gestione ottimale dei volumi polmonari, nella consapevolezza e sensibilità respiratoria, nella mobilizzazione del diaframma, nella elasticizzazione dei muscoli accessori della respirazione….e molto altro. Certamente attraverso il controllo del respiro possiamo ridurre il  battito cardiaco, possiamo regolare la pressione sanguigna, possiamo agire sul livello di acidità (pH) del sangue, possiamo ridurre l’attività cerebrale a calmare il sistema nervoso e certamente possiamo aumentare l’ossigeno che immagazziniamo nei polmoni.

“respirazione addominale-nadi sodhana-kapalabati-repirazione frazionata-bastrika-tempi di espirazione molto più lunghi dei tempi di inspirazione”

In ogni fase della vostra carriera apneistica vi troverete (spero) a sperimentare nuove tecniche respiratorie e nuove tipologie di allenamento respiratorio che potranno essere più o meno efficaci e che potranno darvi la possibilità di aumentare le vostre capacità polmonari, aumentare il vostro livello di elasticità e stretching polmonare e magari darvi la possibilità di immagazzinare più aria e quindi ossigeno nei polmoni.

Certo, tutto è possibile e con una buona pratica molti obiettivi diventano raggiungibli.

Ma è anche vero che aumentare la quantità di ossigeno presente nei polmoni non necessariamente vuol dire essere grado di avere più ossigeno disponibile nel corpo e nei muscoli. Ed avere più ossigeno disponibile nel corpo non è la stessa cosa che avere più ossigeno disponibile nel cervello. In realtà un aspetto molto importante che spesso non viene trattato in modo approfondito quando si parla di “corretta respirazione” è legato al fatto che la maggior parte degli esercizi respiratori che vengono proposti e la maggiore parte delle tecniche respiratorie che vengono adottate prima di una apnea (profonda e non) vanno a modificare il normale ritmo respiratorio (quindi aumentano i volumi aerei scambiati) e solitamente inducono una riduzione della concentrazione o pressione parziale di Anidride Carbonica (PpCO2) presente normalmente nel sangue piuttosto che un aumento della concentrazione o pressione parziale di Ossigeno disponibile (PpO2). In pratica, molto spesso mentre ci prepariamo per un tuffo o una prestazione in apnea noi stiamo facendo delle iperventilazioni che possono essere più o meno volontarie e che possono avere diversi effetti sulla nostra apnea e sulla capacità del nostro corpo di acquisire ossigeno in maniera ottimale.

Iperventilazione e suoi effetti

Iperventilare letteralmente vuol dire ventilare più del normale. L’attività respiratoria viene definita “iperventilazione” quando i volumi di aria che passano attraverso i polmoni sono superiori ai 5 litri al minuto (parametro definito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità). Quindi Iperventilazione significa semplicemente respirare più del necessario in relazione al metabolismo ed alle circostanze. Una respirazione che sarebbe adeguata e giusta se si stesse svolgendo una faticosa attività fisica, risulta eccessiva se si è seduti in poltrona o in macchina.

“Una serie di studi ricavati da esami con la tecnica della spirometria effettuati negli ultimi 80 anni, hanno dimostrato che in questo arco di tempi i volumi di aria respirati dall’uomo sono pressoché raddoppiati.  Il risultato è che il 90 % della popolazione respira molto più di quello che viene considerato salutare dalla stessa O.M.S.” [1]

Ma torniamo a noi. Come molti sanno nella pratica dell’apnea l’iperventilazione induce delle variazioni fisiologiche importanti:

Aumento del battito cardiaco e della pressione arteriosa: La respirazione ed il ritmo cardiaco sono strettamente dipendenti e quindi un aumento del ritmo respiratorio porta ad un aumento del battito cardiaco. Avere un battito accelerato  prima di una apnea è decisamente  una condizione di partenza non ideale ed in contrasto con  una delle  modificazioni fisiologiche naturalmente indotte dal riflesso di immersione, la bradicardia. Inoltre porta ad un maggiore dispendio energetico e soprattutto alla perdita della condizione di  rilassamento.

Tensioni muscolari:La respirazione frequente e forzata richiede l’utilizzo rapido e reattivo di tutti i muscoli coinvolti nell’atto respiratorio, in particolare il diaframma ed i muscoli accessori della respirazione ovvero addominali, muscoli intercostali, muscoli del dorso, muscoli scapolari, etc, che saranno coinvolti in un lavoro intenso. Quindi di nuovo maggiore dispendio energetico e soprattutto perdita della condizione di  rilassamento.

Ma l’effetto più importante indotto dalla iperventilazione è la decarbonizzazione del sangue ovvero la riduzione della pressione parziale di anidride carbonica presente nel sangue. Il centro del respiro che analizza costantemente le pressioni parziali dei gas presenti nel sangue (Ossigeno ed Anidride Carbonica) rileverà una bassa concentrazione iniziale di CO2 e quindi  durante l’apnea prolungata , nonostante l’ossigeno continui a diminuire fino al raggiungimento dei livelli minimi (break-point ossigeno),  non provvederà ad attivare al momento giusto le contrazioni muscolari e\o diaframmatiche e cioè i campanelli di allarme che dovrebbero portare all’interruzione più o meno  immediata dell’apnea.

Alcuni apneisti esperti ed atleti di caratura internazionale prima della prestazione (soprattutto apnea statica) iperventilano volontariamente: la decarbonizzazione infatti induce una fase di  “apnea confortevole”  più lunga  in quanto la pressione parziale di anidride carbonica impiega più tempo a raggiungere il livello di soglia che innesca le contrazioni muscolari.

Nell’apneista “normale” e nel pescatore in apnea il rischio derivante da una ventilazione prolungata (o iperventilazione involontaria\inconsapevole) è una decarbonizzazione del sangue che potrebbe portare ad un ritardo eccessivo del momento di innesco delle contrazioni: se questo accade allora il  break-point dell’ossigeno può manifestarsi molto presto rispetto all’insorgere delle prime contrazioni o addirittura prima che queste abbiano inizio (dipendentemente dal livello di iperventilazione effettuata) e si arriva ad una condizione di perdita di conoscenza o black-out dell’apneista senza alcun segnale di allarme o con segnali arrivati oramai troppo tardi.

Iperventilazione Volontaria\Consapevole: come detto molti atleti (del passato ma anche molti atleti moderni) prima delle prestazioni in apnea (soprattutto statica, ma anche apnea profonda) effettuano delle iperventilazioni o ventilazioni forzate volontarie per cercare di prolungare i tempi di apnea prima dell’insorgere delle inequivocabili contrazioni muscolari che sanciscono l’avvicinarsi del punto limite. Pratica rischiosa che solo atleti esperti si possono permettere di fare.

Iperventilazione Involontaria\Indotta : le ventilazioni lente e controllate che vengono proposte durante gli esercizi di respirazione ed in tutti i manuali e corsi di apnea e che prevedono tempi di espirazione molto più lunghi dei tempi di inspirazione (almeno il doppio di norma), rappresentano comunque delle ventilazioni forzate che vanno ad alterare la normale tendenza respiratoria e conseguentemente i livelli di anidride carbonica presenti nel sangue. Il pescatore in apnea che si ventila attraverso lo snorkel per molti minuti o l’apneista che si ventila sul cavo prima del tuffo solitamente effettuano delle ventilazioni lente e controllate ma che inducono comunque una decarbonizzazione più o meno importante del sangue.

E tra poco vedremo l’importanza del mantenere dei valori di concentrazione o pressione parziale di CO2 “elevati”.

Come respiriamo?

L’obiettivo della respirazione è di ossigenare il sangue e ripulirlo dall’eccesso di CO2 derivante dalle attività cellulari del nostro corpo. Noi in realtà non abbiamo nessun bisogno reale della CO2 che è un prodotto di scarto del nostro metabolismo ma comunque la respirazione è controllata principalmente dai livelli di CO2 che vengono monitorati nel sangue dal centro del respiro: i livelli di CO2 sono responsabili all’80% della meccanica respiratoria. Poi ci sono altri fattori importanti che contribuiscono alla variazione del ritmo respiratorio quali ovviamente il livello di ossigeno e molto spesso lo stato emotivo\emozionale della persona.

Come detto in precedenza, attraverso la respirazione possiamo massimizzare i livelli di Ossigeno presenti nei polmoni (i polmoni contengono circa il 50% dell’ossigeno disponibile durante l’apnea) MA ciò non implica assolutamente il verificarsi della condizione per cui il corpo (muscoli e tessuti) o il cervello possano avere più ossigeno disponibile. Infatti diamo alcune informazioni importanti sull’Ossigeno:

  • La concentrazione o pressione parziale di ossigeno nel sangue, una volta raggiunto il suo limite, non può essere aumentata.
  • L’Ossigeno nel sangue è trasportato dall’emoglobina* che lo raccoglie negli alveoli, e attraverso il flusso arterioso lo trasporta nei tessuti e nelle cellule di tutto il corpo.
  • La concentrazione di ossigeno nell’atmosfera a livello del mare è di circa il 21%. Quando espiriamo l’aria che esce dai polmoni contiene ancora circa il 14% di ossigeno. Quindi ne utilizziamo circa un terzo di quello che inspiriamo.
  • In condizioni normali e con la normale respirazione, la concentrazione di Ossigeno nel sangue è del 2%. Negli alveoli del 13%. Una volta raggiunta questa saturazione, l’emoglobina non è in grado di raccogliere altro ossigeno, e quindi respirare più profondamente o iperventilare a questo scopo è assolutamente inutile.

*L’emoglobina è una metalloproteina contenuta nei globuli rossi e deputata al trasporto di ossigeno nel sangue. Ogni globulo rosso ha circa 250 milioni di molecole di emoglobina. La funzione principale dell’emoglobina è il trasporto dei gas (O2 e CO2) ed ha la proprietà di aumentare la capacità del sangue di trasportare ossigeno da 65 a 70 volte. L’ossigeno, infatti, è solo moderatamente solubile in acqua: le quantità disciolte nel sangue (meno del 2% del totale si trova nel plasma) non sono sufficienti a soddisfare le richieste metaboliche dei tessuti. E’ quindi evidente la necessità di avere un mezzo di trasporto dedicato: l’emoglobina appunto. Più del 98% dell’ossigeno presente nel sangue è legato all’emoglobina che preleva ossigeno nei polmoni, lo rilascia alle cellule che ne hanno bisogno, preleva da esse l’anidride carbonica e la rilascia nel polmoni dove il ciclo ricomincia. Durante il passaggio del sangue nei capillari alveolari polmonari, l’emoglobina cede la CO2 e lega a sé l’ossigeno, che successivamente cede ai tessuti periferici.[2]

La cessione dell’ossigeno ai tessuti ed alle cellule avviene poiché i legami dell’ossigeno con l’emoglobina sono labili e sensibili a molti fattori ed uno dei più importanti è, assieme al pH del sangue, la concentrazione di Anidride Carbonica CO2 disciolta nel sangue.

Importanza dell’Anidride Carbonica nella respirazione interna: effetto Bohr

La necessità dell’ anidride carbonica CO2 per il passaggio dell’ossigeno O2 dal sangue ai tessuti non è una teoria di qualche stravagante scienziato: si tratta di una circostanza già scoperta all’inizio del 1900 e comunemente ammessa e conosciuta da tutti gli esperti del settore sotto il nome di “effetto Verigo -Bohr”.

“L’Anidride Carbonica se presente in concentrazione sufficiente nel sangue favorisce il rilascio dell’ossigeno alle cellule da parte dell’emoglobina” 

Semplificando al massimo il concetto e senza addentrarci troppo in concetti di biochimica anche abbastanza complessi (per i più curiosi trovate qui tutti i dettagli), l’effetto Verigo-Bohr ci dice che “maggiore è la pressione parziale di CO2 e maggiore sarà la pressione parziale di O2 necessaria affinché l’emoglobina venga saturata ossia, maggiore sarà la quantità di CO2 presente nel sangue, meno O2 resterà legato all’emoglobina.”

L’effetto Verigo-Bohr ha conseguenze sia sull’assunzione di O2 a livello polmonare, che sulla sua cessione a livello tissutale e celebrale: ove c’è più Anidride Carbonica l’emoglobina rilascia più facilmente Ossigeno e si carica di Anidride Carbonica. Quindi in parole povere e focalizzando l’attenzione al caso dell’apneista:

  • se l’anidride carbonica CO2 presente e disciolta nel sangue sotto forma di acido carbonico è mantenuta a valori elevati (ovvero i valori normali che si avrebbero senza effettuare iperventilazioni), allora l’ossigeno rimane meno legato all’emoglobina e quindi sarà ceduto più facilmente e reso disponibile alle cellule, ai tessuti ed ai muscoli;
  • maggiori saranno il livello di acidità del sangue (pH basso) e la temperatura corporea,  maggiore sarà la facilità con cui l’emoglobina cederà ossigeno: ad esempio nel corso di attività fisiche che aumentano la temperatura corporea ed attivano il metabolismo anaerobico (lavori anaerobici lattacidi come una risalita dal fondo per esempio) si produce acido lattico  che rende il nostro sangue più acido, abbassandone il pH e favorendo quindi la cessione di ossigeno dall’emoglobina ai tessuti muscolari che ne hanno bisogno.

curva-dissociazione-emoglobina

Concentriamoci ora sul ruolo dell’ anidride carbonica CO2: da questo grafico detto “curva di dissociazione dell’emoglobina” possiamo vedere che a parità di pressione parziale di Ossigeno presente e disciolta nel sangue, maggiore è la pressione parziale di anidride carbonica nel sangue e minore sarà la percentuale di saturazione dell’emoglobina, cioè maggiore sarà la facilità con cui l’emoglobina cederà ossigeno ai tessuti.

L’atmosfera contiene una concentrazione di ossigeno pari al 21% ed alle nostre cellule ne basta una pari al 13%. L’anidride carbonica nell’aria atmosferica è presente in una quantità dello 0,03/0,04% circa, mentre il livello salutare di concentrazione di Anidride Carbonica negli alveoli e nel sangue dovrebbe essere del 6,5% affinchè le nostre cellule possano ricevere il giusto quantitativo di ossigeno per vivere. E proprio il 6\8% è la concentrazione di anidride carbonica che emettiamo con una espirazione: la CO2 che espiriamo non è contenuta nell’aria che inspiriamo ma è prodotta all’interno dell’organismo e quindi nonostante sia un prodotto di scarto del metabolismo  comunque condiziona in modo importante la capacità del nostro corpo di assumere e metabolizzare l’ossigeno! Una concentrazione organica inferiore al 3% di Anidride Carbonica non permette la respirazione cellulare e quindi la vita.

Ok, tutto molto Interessante. Ma alla fine della fiera, come sarebbe opportuno respirare prima di un’apnea?

Se dovessi prendere come riferimento un campione moderno dell’apnea prenderei sicuramente come esempio William Trubridge il quale più volte mi ha spiegato come respirare prima di un’apnea profonda: la respirazione ideale nella fase preparatoria ad un tuffo in apnea dovrebbe prevedere delle respirazioni a volume corrente che attivano volumi di 500\600 ml di aria e che mantengono i livelli di concentrazione di anidride carbonica CO2 nel sangue  a valori “normali”, permettendo quindi una respirazione cellulare (soprattutto al livello celebrale) ottimale e data appunto dal mantenere valori di anidride carbonica sufficientemente alti da permettere all’emoglobina di cedere “più facilmente”  l’ossigeno alle cellule che ne hanno bisogno.

“Nella fase preparatoria ad un’apnea dovremmo respirare come se stessimo leggendo un libro comodamente rilassati sul divano. Solo gli ultimi due\tre atti respiratori dovrebbero essere profondi e avere il duplice obiettivo di darci (1) la sensazione di riempimento ed estensione polmonare e poi ovviamente (2) permetterci di fare un buon carico di aria prima del tuffo, perché comunque più aria abbiamo meglio è (soprattutto in apnea profonda, mentre in statica e dinamica non è sempre vero)”

Con questo tipo di respirazione (che non è assolutamente facile da ottenere e gestire consapevolmente prima di un’apnea) sicuramente aumenteremo la probabilità di mantenere i livelli di Anidride Carbonica CO2 a valori normali e quindi daremo la possibilità all’emoglobina di cedere più facilmente ossigeno O2 ai nostri tessuti, in particolare il nostro cervello, ed in più eviteremo una iperventilazione inconsapevole\involontaria con conseguente possibile ritardo nell’insorgere delle contrazioni muscolari attivate dal centro del respiro. 

Quindi quando si respira e ci si prepara per un’apnea si dovrebbe tenere a mente che in generale il risultato che si ottiene aumentando la ventilazione è solo una rapida diminuzione della concentrazione di CO2 fisiologica: per capire l’importanza di una ventilazione corretta e consapevole in apnea vi basti pensare che una condizione di ventilazione profonda (scambio maggiore di 6 Litri al minuto che potrebbe essere ottenuto durante qualunque esercizio respiratorio didatticamente corretto o semplicemente ventilandosi sul cavo prima di un tuffo – mantenendo sempre un rapporto tra tempo di inspirazione e tempo di espirazione di almeno 1:3)  provoca una carenza di CO2 e determina una insufficiente respirazione cellulare. Infatti la riduzione della concentrazione di CO2 nel nostro organismo provoca broncocostrizione e vasocostrizione e quindi, in base al principio Verigo-Bohr, come conseguenza avremo un minore apporto di ossigeno ai nostri tessuti (ipossia tissutale).

“Una iperventilazione  di un solo minuto, effettuata aumentando di sole quattro volte la normale ventilazione, riduce di circa il 50% la riserva di CO2. Per recuperare la CO2 persa in dieci minuti di ventilazione profonda è necessaria 1 ora di esercitazione con la respirazione ridotta come indicato negli esercizi del Metodo Buteyko”.[3]

Il metodo Buteyko è un metodo di respirazione e di approccio alla respirazione formulato nel 1950 dal medico russo K.P. Buteyko il quale, attraverso studi precisi e con tutti i crismi del rigore scientifico, ha effettuato delle scoperte stupefacenti in quanto al ruolo della CO2 nell’organismo umano. Secondo l’opinione del Dott. Buteyko oggi si individuano almeno 150 differenti malattie che sono causate proprio dal basso contenuto di anidride carbonica nel nostro corpo. Queste 150 malattie sarebbero responsabili per quasi l’80% di morbilità, disabilità e mortalità nella popolazione generale. La sostanza del metodo Buteyko sta nell’insegnare a respirare in maniera “più superficiale”: il risultato di questo tipo di respirazione consiste nella ritenzione di anidride carbonica (che induce vasodilatazione e broncodilatazione) e conseguente miglioramento dell’afflusso di sangue ossigenato a tutti gli organi ed apparati. 

Ma il metodo Buteyko è un’altra Storia che vedremo più avanti.


© Autore: Marco Cosentino. Riproduzione riservata. E’ vietata la riproduzione, anche parziale, di tutto il materiale pubblicato nel sito senza preventiva autorizzazione scritta(Fonti [1] http://www.ilbuonrespiro.it, [2] http://www.wikipedia.org, [3] http://www.buteyko.it)

Compensazione in Apnea – Parte 2

Compensazione in Apnea – Leggi la prima parte

“Squeeze” ed Emottisi: possibili cause e prevenzione.

Nel precedente post abbiamo fornito delle definizioni utili per capire quali sono le grandezze fisiche e i cambiamenti che queste subiscono durante un tuffo in apnea, e come queste variazioni incidano sulla capacità dell’apneista di compensare a certe profondità.

Attenzione: tutte le discipline subacquee  e\o apneistiche durante le quali è previsto l’atto di trattenere il respiro devono essere svolte in presenza di un istruttore e\o di un compagno qualificato. Questo post ha scopo puramente informativo. Mai in Mare da soli.

Abbiamo visto che mediamente alla profondità di 30/33 metri il volume aereo polmonare raggiunge il valore pari al Volume Residuo e l’apneista non è più in grado di traslare meccanicamente aria dai polmoni verso la parte alta dell’albero respiratorio e quindi verso l’orecchio medio ed il timpano: viene raggiunto il limite reale della compensazione in apnea.

Oltre queste profondità ogni manovra forzata di compensazione (sforzo espiratorio con conseguente contrazione muscolare) può indurre delle pressioni negative all’interno dell’albero respiratorio che possono causare barotraumi e\o edema polmonari che in inglese sono anche definiti con il termine “Lung Squeeze” e\o “Tracheal Squeeze” , letteralmente “Strizzamento-Spremitura dei Polmoni e\o della Trachea”.

Tra gli apneisti lo “squeeze” è un argomento molto delicato, spesso sottovalutato, a volte evitato per pudore, e sempre più frequentemente fatto passare come un evento “normale” che prima o poi può capitare a tutti quanti provano a scendere più in profondità: non è esattamente cosi.

In realtà ci sono poche informazioni disponibili sia sui libri che su internet e la ricerca scientifica ha mosso i primi importanti passi per cercare di capire le possibili cause e le eventuali predisposizioni genetiche a questo tipo di problematiche  (Apnea Academy Research su tutti). Ovviamente in questo post non ci addentreremo in questo tipo di trattazioni di carattere medico-scientifico che lasciamo a chi ha maggiori competenze e dati a supporto.

Scopo di questi post è cercare di rispondere alle domande di un numero sempre (purtroppo) crescente di apneisti che soprattutto all’inizio della stagione estiva incorrono in questo tipo di problema e si rivolgono poi al proprio istruttore per avere delle delucidazioni, dei consigli, e spesso delle rassicurazioni.

Partiamo con il descrivere i sintomi più comuni con cui si manifesta lo “squeeze”:

  • Emottisi dopo il tuffo (escretato rosato o con evidenti tracce di sangue) che può manifestarsi anche per qualche ora dopo l’accaduto (dipendentemente dall’intensità e dalla localizzazione del danno)
  • Tosse secca che permane anche per qualche giorno dopo l’immersione subacquea,
  • Difficoltà respiratorie (soprattutto difficoltà ad effettuare dei respiri profondi),
  • Dolore\Bruciore nella zona sternale,
  • Stanchezza\spossatezza che può permanere anche nei giorni a seguire (dipendentemente dall’intensità e dalla localizzazione del danno)

Diverse sono le  situazioni  che possono portare a questo tipo di problema.

La prima e più importante è quella che abbiamo descritto ampiamente anche nel post precedente e cioè tuffi nei quali l’apneista raggiunge profondità per cui il volume polmonare è pari o inferiore al volume residuale. A queste profondità la pressione idrostatica riduce i volumi aerei presenti all’interno dell’albero respiratorio inducendo:

1) una pressione negativa nei polmoni e negli altri spazi aerei semideformabili (bronchi e trachea in particolare) che fa collassare le pareti polmonari e alveolari e sottopone a “strizzamento” anche gli spazi aerei semideformabili,

2) il boodshift/emocompensazione che per compensare la riduzione del volume aereo fa aumentare le dimensioni dei capillari e dei vasi sanguigni presenti all’interno dei polmoni e che circondano gli alveoli.

Si intuisce facilmente che in questa situazione di stress del sistema respiratorio, manovre di compensazione forzate e\o errate possono generare ulteriori depressioni all’interno del sistema e portare ad una sindrome da stress dei capillari polmonari con conseguente stravaso di liquido  nei polmoni (edema polmonare) oppure con la rottura dei capillari nella parte alta dell’albero respiratorio in cui le strutture sono semideformabili (barotrauma tracheale e\o bronchiale).

Altre situazioni che possono aumentare la probabilità che questo incidente si verifichi si possono avere se l’apneista:

  • Si immerge a profondità superiori al proprio limite reale della compensazione,
  • Arriva ad avere le contrazioni diaframmatiche in profondità,
  • Utilizza manovre di compensazione non idonee che generano ulteriore pressione negativa nell’albero respiratorio con conseguenti tensioni toraciche (ad esempio il richiamo dell’aria fatto con il diaframma o utilizzando la “bocca come una pompa” – “reverse packing”),
  • Effettua dei movimenti bruschi sul fondo (iperestensione delle braccia, iperestensione del collo per guardare il fondo\piattello, girate sul fondo troppo veloci e brusche, sforzi per stanare un pesce o recuperare oggetti dal fondo) che generano ulteriori importanti pressioni negative all’interno dell’albero respiratorio e tensioni nella zona toracica,
  • Non è in grado di gestire al meglio la compensazione del volume aereo presente nella maschera con possibili effetti dannosi a carico dei polmoni (effetto suzione).

Il tipico apneista che ha maggiore probabilità di incorrere in questo tipo di problemi è una persona che si allena prevalentemente in piscina o che ha appena frequentato un corso di apnea in piscina: dopo una stagione nella quale ha frequentato degli allenamenti di apnea ed ha raggiunto ottime distanze in apnea dinamica, cerca di trasferire queste sue prestazioni in Mare ed in profondità. Pensa di avere il “fiato” e la necessaria preparazione fisica di base per scendere a  30\40mt e pensa che comunque è “solo una questione di compensazione” e magari cerca di raggiungere queste quote utilizzando slitte per l’assetto variabile che sempre più spesso vengono utilizzate da istruttori di apnea come strumento didattico durante corsi, uscite in Mare e stage di apnea (io personalmente le trovo estremamente pericolose soprattutto se l’allievo è un neofita o se l’apneista è alle prime uscite della stagione).

Ma il suo corpo non è adattato alla profondità, la sua manovra di compensazione (spesso) non è cosi consapevole, il suo livello di rilassamento fisico e mentale è molto scarso poichè in Mare a quelle profondità non ci va spesso, e quindi il rischio di incidente aumenta in modo considerevole (come ampiamente descritto sopra).

Altre condizioni che possono portare a questo tipo di incidente sono:

  • scarso adattamento dell’apneista alla pressione idrostatica e quindi alla profondità ed alle modificazioni fisiologiche da essa indotte;
  • scarsa elasticità e mobilità del diaframma;
  • poca flessibilità ed elasticità della gabbia toracica;
  • poca flessibilità delle strutture semideformabili che formano la parte alta dell’albero respiratorio (bronchi e trachea in particolare);
  • scarso rilassamento fisico in discesa;
  • utilizzo di sistemi di discesa (slitte per l’assetto variabile) che non permettono all’apneista di gestire la frequenza con cui effettuare le manovre di compensazione a causa della elevata velocità di discesa.

Lo squeeze polmonare può portare anche a gravi conseguenze: se i polmoni si riempiono di fluido, gli alveoli non saranno in grado di scambiare ossigeno con il sangue e quindi rifornire di ossigeno il nostro corpo. I livelli di saturazione di ossigeno risulteranno bassi e potrebbero rimanere molto bassi anche per lungo tempo dopo l’incidente. In casi estremi potrebbe causare anche soffocamento in superficie dopo la riemersione (come putroppo è accaduto lo scorso novembre 2013 al giovane apneista Statunitense N.Mevoli). Un metodo che probabilmente verrà usato nelle prossime competizioni per capire la presenza di un eventuale squeeze polmonare e la sua “severità” sarà un semplice pulsiossimetro (o ossimetro o saturimetro) con il quale misurare i valori subito dopo il tuffo.

Lo squeeze tracheale può manifestarsi invece con una sensazione di bruciore alla gola che l’apneista avverte subito dopo l’uscita dal tuffo e con piccole tracce di sangue nella saliva che vengono espettorate solitamente all’uscita dal tuffo. Lo squeeze tracheale potrebbe essere causato alla iperestensione della testa in discesa per guardare il piattello o il fondo: questo movimento può creare delle pressioni negative nella struttura semideformabile e molto delicata della trachea con conseguenti rotture di capillari sulla sua superficie interna. E’ possibile lavorare sulla trachea (cosi come sui polmoni) per aumentarne la flessibilità e cercare di ridurre la probabilità che questo incidente si verifichi.

Di seguito alcune precauzioni che possono aiutare a cercare di evitare incidenti a carico dell’albero respiratorio in tuffi a profondità pari o superiori alle profondità per cui si raggiunge il Volume Residuo:

  • Approcciate la profondità in maniera molto graduale, soprattutto se siete apneisti che provengono da stagione invernale con allenamenti fatti prevalentemente in piscina,
  • Evitate movimenti bruschi sul fondo (girate, traslazioni, etc), iperestensioni del collo e della testa (ad esempio guardare il piattello\fondo mentre si scende), allungamenti degli arti superiori ( ad esempio effettuare delle bracciate troppo ampie in risalita da tuffi in CNF- rana subacquea, oppure allungare troppo le braccia per tirarsi lungo il cavo in tuffi in FIM-Immersione Libera), etc;
  • Evitate di arrivare a sentire le contrazioni diaframmatiche in profondità,
  • Effettuate un buon riscaldamento con dei tuffi preparatori prima del tuffo profondo,
  • Lavorate molto sulla elasticità e flessibilità della gabbia toracica a secco ed in acqua,
  • Imparate ad essere rilassati sul fondo cercando di abbandaonare ogni tensione a carico della zona toracica, in particolare quando si cerca di compensare a profondità superiori al Limite reale della compensazione,
  • Evitate manovre di compensazione che sono supportate da sforzi espiratori e contrazioni muscolari (come accade nella manovra di Valsalva) e cercare di imparare invece la manovra di Frenzel che è una manovra di carattere motorio-pressorio che non mette in pressione tutto l’albero respiratorio.
  • Lavorare molto con esercizi di stretching polmonare e tracheale a secco ed in acqua;
  • Evitate tuffi a polmoni “vuoti” e quindi tuffi in CFR o tuffi in “espirazione totale” o “full Exhale”.

Nel momento in cui si dovesse verificare un incidente con i sintomi descritti sopra, il suggerimento è di:

  • Interrompere immediatamente le sessioni di tuffi ed uscire dall’acqua;
  • Contattare immediatamente un medico e preferibilmente uno specialista che abbia delle competenze in medicina subacquea;
  • Interropere per qualche giorno qualunque tipo di attività fisica, bere molti liquidi, rimanere fuori dall’acqua almeno per qualche giorno evitando di mettere sotto pressione i polmoni,
  • Ovviamente tornate in acqua solo dopo parere medico.

Purtroppo negli ultimi anni questi incidenti si stanno verificando sempre più spesso perchè la maggior parte degli apneisti oggi cerca la profondità e la prestazione a tutti i costi, spesso senza avere una adeguata preparazione fisica e mentale e con una scarsa conoscenza dei rischi e delle problematiche legate a tuffi oltre il Volume Residuale.

Spero che questi post possano aiutare ad avere un quadro un pò più chiaro.

Marco Cosentino


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Compensazione in apnea subacquea

Limite reale della compensazione e rischi

Sempre più spesso mi capita di vedere apneisti che con molta facilità raggiungono quote importanti ma senza la necessaria preparazione fisica e mentale, senza conoscere quali siano le tecniche di compensazione più idonee da impiegare e spesso senza avere a mente quali sono i principi fisici e fisiologici che condizionano e modificano il nostro corpo durante il tuffo in apnea.

Nei nostri corsi ed allenamenti puntiamo molto alla gestione consapevole della compensazione a quote limite e supportiamo i nostri atleti con sedute specifiche di allenamento in acqua ed a secco nelle quali cerchiamo di insegnare e mettere in pratica molti dei consigli e degli accorgimenti che possono fare la differenza quando ci si immerge in profondità.

Attenzione: tutte le discipline subacquee  e\o apneistiche durante le quali è previsto l’atto di trattenere il respiro devono essere svolte in presenza di un istruttore e\o di un compagno qualificato. Questo post ha scopo puramente informativo. Mai in Mare da soli.

Cosa è il limite reale della compensazione?

Il limite reale della compensazione in apnea è individuato con il raggiungimento della profondità alla quale l’apneista non è più in grado di traslare meccanicamente aria (attraverso degli sforzi espiratori che coinvolgono i muscoli accessori della respirazione) dai polmoni verso la parte alta dell’albero respiratorio e quindi verso il rino-faringe, le tube di Eustachio, per giungere poi all’orecchio medio dove la membrana timpanica viene riportata in equilibrio.

In parole povere il limite reale della compensazione in apnea è la profondità alla quale l’apneista non “ha più aria per compensare le orecchie” ovvero non riesce più a “trovare aria” nei polmoni per farla poi arrivare al timpano e quindi compensare la riduzione volumetrica che avviene all’interno dell’orecchio medio a causa dell’aumento della pressione ambiente (ricordiamo sempre la legge di Boyle che ci dice come i volumi aerei interni del nostro corpo variano al variare della pressione ambiente).

Chi ha fatto delle discese su cavo con degli allievi o con degli apnenisti che hanno difficoltà a compensare a queste quote,  avrà sicuramente notato (in verità sentito-udito) dei rumori gutturali molto caratteristici di chi si sta forzando per cercare di portare aria dai polmoni verso la parte alta dell’albero respiratorio: questi sforzi espiratori, che coinvolgono i muscoli intercostali ed il diaframma, possono creare non pochi problemi alle strutture polmonari che a quelle quote sono estremamente stressate per effetto del Bloodshift (o emocompensazione) che richiama sangue verso i polmoni al fine di compensare la riduzione volumetrica degli spazi aerei polmonari.

Per capire quali sono le profondità a cui si raggiunge questo limite di compesazione in apnea ,  facciamo un passo indietro e parliamo di volumi polmonari. E per farlo partiamo dall’esame che ci permette di valutare e definire questi volumi.

Spirometria

La spirometria è il test più comune per valutare la funzionalità polmonare. Si tratta di uno strumento diagnostico particolarmente efficace e diffuso. La spirometria è utilizzata frequentemente nella diagnosi e nella valutazione delle funzionalità polmonari. Durante l’esame ci si avvale di un particolare strumento chiamato spirometro, in grado di valutare i diversi volumi polmonari.

I “volumi polmonari statici”, quelli di nostro interesse, sono singoli volumi che non possono essere ulteriormente divisi, e sono:

  • Volume Corrente o Tidal volume (Vc) : quantità d’aria che viene mobilizzata con ciascun atto respiratorio non forzato (300-500 ml). Per sapere quanta aria arriva agli alveoli (e quindi viene scambiata) si deve calcolare il volume alveolare, che si ottiene sottraendo dal volume corrente il volume dello spazio morto anatomico. Lo spazio morto anatomico è il volume di aria intrappolata nelle vie aeree di conduzione (dalla bocca passando alla trachea per finire ai bronchioli terminali). Nello spazio morto anatomico non avviene la diffusione dell’ O2 e della CO2 fra aria e sangue, ha solo una funzione di conduzione, cioè di portare l’aria agli alveoli.
  • Volume di Riserva Inspiratorio (Vri): quantità massima di aria che, dopo un’inspirazione normale, può essere ancora introdotta nei polmoni con un atto inspiratorio forzato che implica l’utilizzo dei muscoli accessori della respirazione (diaframma ed intercostali).
  • Volume di Riserva Espiratorio (Vre) : quantità massima di aria che, dopo un’espirazione normale, può essere ancora espulsa con un atto espiratorio forzato che implica l’utilizzo dei muscoli accessori della respirazione (intercostali ed addominali).
  • Volume Residuo (Vr): è l’aria che resta nei polmoni dopo un’espirazione forzata. Questo volume non può essere misurato direttamente e si calcola con vari metodi: pletismografia, mixing dell’elio, wash out dell’azoto.

Le capacità polmonari, che invece sono somme di volumi, sono:

  • Capacità Vitale (Cv): somma del Volume Corrente, più quello di Riserva Inspiratorio e quello di Riserva Espiratorio. È la massima quantità di aria che può essere mobilizzata in un singolo atto respiratorio, partendo da una inspirazione forzata massimale e arrivando ad una espirazione forzata massimale.
  • Capacità Polmonare Totale (Ctot): somma della Capacità Vitale più il Volume Residuo, è la massima quantità di aria che può essere contenuta nei polmoni.
  • Capacità Funzionale Residua (CFR): somma della Riserva Espiratoria e del Volume Residuo. È la quantiità di aria che resta nel nostro apparato respiratorio dopo una espirazione cosidetta “passiva” ovvero senza contrazione e supporto dei muscoli accessori della respirazione. A questo volume il sistema respiratorio è in equilibrio.

Sulla base delle grandezze definite siamo in grado di stimare che un individuo medio di sesso maschile ha i seguenti valori indicativi:

  • Volume Corrente Vc = 600 ml
  • Volume di Riserva Inspiratoria = 3000 ml
  • Volume di Riserva Espiratoria = 1500 ml
  • Volume Residuo = 1500 ml

Che portano alla definizione di una capacità totale media Ctot = 6500 ml cioè circa 6,5 Litri.

È importante per l’apneista conoscere queste grandezze poiché i loro rapporti e le loro variazioni durante il tuffo in apnea contribuiscono a determinare la profondità alla quale si raggiungerà il limite reale della compensazione, ovvero quella profondità alla quale l’apneista non sarà più in grado di traslare aria dai polmoni verso l’orecchio medio (agendo con uno sforzo espiratorio) perché il volume polmonare avrà raggiunto un valore che per sua definizione misura “l’aria che resta nei polmoni dopo un’espirazione forzata”: questo volume è il Volume Residuo.

A quale profondità raggiungeremo un volume polmonare pari al volume residuo?

Se consideriamo un individuo medio con una capacità totale di 6,5 litri in superficie alla pressione di 1 ATM , allora la profondità alla quale questo volume si ridurrà per effetto della pressione idrostatica (1 ATM ogni 10 m di profondità) ad un volume di 1,5 litri sarà data dalla semplice applicazione della legge di Boyle per cui P1xV1=P2xV2 in cui P1= 1ATM e V1=6,5l, P2 è da calcolare e V2=1,5 l. Otteniamo quindi che P2= 4,3 ATM che corrispondono a circa 33 metri di profondità.

Quindi mediamente alla profondità di 33 Metri il volume aereo polmonare avrà raggiunto il valore pari al Volume Residuo e l’apneista non sarà più in grado, attraverso sforzi espiratori, di traslare meccanicamente aria dai polmoni verso l’orecchio medio. 

Anzi, ogni manovra forzata di compensazione (sforzo espiratorio con conseguente contrazione muscolare) a queste profondità e\o qualunque tipo di movimento brusco (iperstensione delle braccia, sforzi sul fondo, etc) possono generare pressioni negative all’interno dell’albero respiratorio con conseguenti barotraumi dell’apparato respiratorio (polmoni e\o trachea).

Infatti se a queste quote la consapevolezza compensatoria e le manovre di compensazione applicate dall’apneista non sono idonee, allora la possibilità di incorrere nel cosiddetto “squeeze” (termine inglese utilizzato per descrivere questo tipo di problematica) polmonare o tracheale sono molto elevate, specialmente se si affrontano questi tuffi con sistemi di discesa (slitte per l’assetto variabile) che non permettono all’apneista di gestire al meglio la compensazione a causa della elevata velocità di discesa.

Nel prossimo post daremo una definizione di “Squeeze Polmonare”, faremo un identikit dell’ apneista che è più a rischio e daremo delle indicazioni su come cercare di evitare questo tipo di incidente.

Marco Cosentino    


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